Fra l’estate e l’autunno 1825, a Milano, l’editore Ferrario licenziava il secondo tomo dei Promessi sposi; contemporaneamente vedeva la luce, per la Società tipografica dei Classici italiani, la quarta e definitiva edizione dell’Iliade tradotta da Vincenzo Monti. La concomitanza rende l’idea di un passaggio epocale: di lì a poco il romanzo si sarebbe imposto come dominante, condannando il poema a un progressivo declino. L’egemonia non fu tuttavia immediata, e per anni, nei centri urbani come nelle provincie, il poema rimase una suggestione viva, forte di un passato illustre, spesso identificato come baluardo di una tradizione culturale. Per tutto il primo Ottocento non mancarono infatti, da parte di penne celebri o dimenticate, tentativi di recupero. Tuttavia l’ampia diffusione non poté eludere il problema dell’effettiva possibilità di sopravvivenza di una forma che, nel mutato scenario storico, si esponeva sempre più al rischio di apparire anacronistica. È dunque nel solco della contraddizione fra la sorprendente vitalità del poema e la contemporanea meditazione intorno al suo tramonto che saranno da rinvenire gli aspetti più significativi della transizione, tormentata e tutt’altro che lineare, verso nuovi paradigmi letterari. Un passaggio la cui complessità suscitò spesso negli autori ambivalenza e perfino smarrimento nel constatare che “il tempo dei lunghi poemi” si avviava alla fine.
Poema desiderato. Avventure di una forma nell’Italia del primo ottocento (1804-1850) (Il)
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