C’è qualcosa in noi che si rifiuta di essere catalogato in base alla nosografia psichiatrica dei vari manuali DSM e che non può essere collocato in un quadro psicopatologico. Sotto la lente dello sguardo clinico, la nostra sofferenza viene razionalizzata in una sindrome e così la nostra biografia, la nostra singolare narrazione, non potrà che apparire come la storia di una vittima, di una persona la cui psiche è malata, traumatizzata, che necessita di cure specifiche. Se ci sottraiamo a tale visione patologica e pensiamo alla psiche come “vita”, senza scinderla dalla propria sofferenza ma solo dalla visione malata che abbiamo di noi stessi, allora possiamo costruire immagini per dare un nome al nostro disagio, che spesso resta senza definizione, manifestandosi come perdita di senso e di interesse per la vita. Concependo la condizione psicologica come frutto di eredità arcaiche e di esperienze vissute in epoche più recenti, come un insieme di contenuti inconsci sia individuali che collettivi, ci avventureremmo in un territorio ignoto per incontrare la nostra anima, come vuole l’espressione di Carl G. Jung, ripresa nel pensiero di Erica F. Poli. Potremmo conoscere il nostro daimon, come propone James Hillman, il nostro “geniale compagno di viaggio”, che per Umberto Galimberti rappresenta la nostra vocazione, quello per cui siamo nati. Oppure, ancora, conoscere ciò che siamo e perché lo siamo diventati, la coscienza del proprio “essere nel mondo”, abitati nello psichico da “gruppalità interne” che, secondo Diego Napolitani, caratterizzano la nostra individualità.
Poiesis. La psicoterapia come fare anima
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