Intervista a Enzo Bianchi
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Enzo Bianchi (1943) è priore della Comunità monastica di Bose
e una delle voci più acute e autorevoli della Chiesa italiana.
Impegnato nel dialogo ecumenico e nell’obbedienza al Vangelo, medita di
frequente sulla centralità e la natura della preghiera, che non è un
vuoto esercizio formale né una semplice richiesta d’aiuto, ma capacità
di elevarsi dal mondo e guardarlo con occhi nuovi, di trascendere
l’istante che tutto divora e aderire a un tempo altro, più vicino al
respiro del Creato.
Questo è il senso dell'iniziativa del Gruppo San Paolo: un cofanetto che raccoglie 8 cd con Salmi e intervalli musicali: un modo per pregare insieme ai monaci di Bose, e vivere la settimana secondola cadenza della preghiera quotidiana.
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Leggi l'intervista
Pregare è dare del tu al Signore
Intervista di Francesco Gaeta (tratto da "Famiglia Cristiana" del 22/04/2015)
La campana li chiama a tocchi lenti, e da porte invisibili
“fratelli” e “sorelle”, in tuniche candide tirate sul capo, entrano ai
lati della navata, si accovacciano in terra e per un momento sembrano
gigli recisi, posati da una mano più grande. È la mezza, qui a Bose, tra le colline di Ivrea. Ora media. Preghiera.
Come ogni giorno, tre volte ogni giorno: alle 6, alle 12.30, alle 18.
Un sole di primavera fa piovere sul pavimento laghi di luce, ma dentro
la chiesa di questo monastero che attira pellegrini anche dall’estero è
solo un fresco silenzio.
L’organo si avvia, sessanta voci di uomini e donne lo
inseguono, si parlano, rimandano brani di salmi e antifone in un canto
che sale via via. Voci e note danno parole al mistero di ogni
eremitaggio: contemplare il mondo da lontano e sentirne il battito più
vicino di ogni altrove possibile.
Enzo Bianchi, il priore, compie
questi gesti da 50 anni nella comunità che ha fondato e oggi ha sedi in
Puglia, Umbria, Toscana, Gerusalemme. Seguendo le parole di Martin
Buber, maestro di sapienza ebraica, Enzo Bianchi parla di Dio in libri e
conferenze «alla terza persona, da teologo», ma riesce a «dargli del tu
soprattutto attraverso i 150 salmi dell’Antico Testamento». Così, ha
voluto che questa preghiera comunitaria fosse pubblica. Otto Cd, a coprire una settimana del salterio, musiche di artisti noti e le parole del salmista. Per tracciare anche agli altri un binario su cui incardinare i giorni.
«Si prega per chiedere, intercedere, ringraziare», spiega il
priore, seduto vicino a un lussureggiante rosmarino portato dalla
Camargue, «anch’esso una laude di colori». Ma innanzitutto la preghiera è
ascolto. Rendere udibile l’invocazione che abbiamo dentro. È farsi
concavi «per cogliere i segni della Presenza, che ci parla nella natura,
nelle persone che incontriamo, in quelle che non possiamo più vedere e
sappiamo già in un luogo che raggiungeremo». Tutto questo è chiedere,
con la formula dello Shemà Israel: “Parla Signore, il tuo servo ti ascolta”. Pregare non è dare fiato alla propria voce, ma spalancare l’ascolto alla voce dell’altro. Disporsi alla sorpresa dell’Incontro.
Ecco a cosa servono i salmi. A curvare l’anima al silenzio. «A
chiedere che in noi parli lo Spirito, l’unica vera invocazione verbale
che abbia senso». Ma occorre saper coltivare pause in ritmi oggi troppo
concitati. «La fretta è la malattia più diffusa in chi arriva fin qui»,
spiega Bianchi, gli occhi azzurri che si fanno fessure mentre cerca le
parole. «Eppure dire “non ho tempo per pregare” è fare professione di
idolatria». Perché anche il tempo, come il resto, non ci appartiene. Ci è
dato.
Pregare è poi chiedere. Con tenacia. «Incessantemente, senza stancarsi, come dice san Paolo».
A patto che chiedere non sia invocare il miracolo. «Perché oggi
oscilliamo tra la richiesta di un segno ad ogni costo e la sfiducia che
la richiesta possa essere esaudita. Siamo divisi tra pretendere tutto e
attendersi nulla». All’origine di questo pendolo tra illusione e
disincanto è una fede oggi cucita sempre più “su misura”,
individualistica: un po’ di meditazione orientale, di yoga, perfino un
pizzico di islam. Ne esce un vestito che calza in modo maldestro.
«Succede perché si fatica a confrontarsi con quello che a volte scambiamo per silenzio di Dio,
ma è solo la nostra stanchezza. Anche quella può e deve essere offerta.
Certe sere, dopo ore sature di impegni, accade anche a me, nella mia
cella in mezzo al bosco, di non avere altro da dire: accoglimi così, con
la mia stanchezza».
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Guarda l'intervista di Francesco Gaeta ad Enzo Bianchi
Parte 1 - "La malattia di cui soffre la preghiera oggi, l'assenza di speranza
Parte 2 - "La preghiera non è parlare a Dio ma porsi in suo ascolto"
Parte 3 - "Pregare è chiedere, incessantemente"
Parte 4 - "Pregare stanchi: succede anche a me"
Parte 5 - "La preghiera delle lodi: una tradizione che ha 3.000 anni"
Parte 5 - "Pregare cantando è pregare tre volte, perché coinvolge tutto il corpo"
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